Alessio Brandolini, la poesia come un fiume che va verso il mare
Ricordo un quadro di Giorgio De Chirico dove dalle acque di un fiume fuoriescono lingue di fuoco ed una città stilizzata attonita dal “Tevere in fiamme”. È con questa raccolta che Alessio Brandolini si aggiudica, nel 2008, il Premio di Poesia “Sandro Penna”.
Nato a Frascati nel 1958, Alessio Brandolini ha trascorso i suoi primi vent’anni in una piccola casa sul cocuzzolo di Monte Compatri, sempre nei Castelli Romani, con i genitori e cinque fratelli. Poi si è trasferito a Roma, dove tutt’ora vive.
Ha esordito come poeta nel 1989 sulla rivista “Galleria”. Nel 1991 ha vinto la sezione inediti del “Premio Montale” con una silloge poetica, “L’alba a piazza Navona”, pubblicata da Scheiwiller nel 1992. Nel 2002 ha pubblicato “Divisori orientali” (Manni editore), una raccolta poetica alla quale è stato attribuito il “Premio Alfonso Gatto 2003 – Opera prima”, e nel 2004 sono uscite le “Poesie della terra” (LietoColle – con prefazione di Mario Santagostini), poi anche in versione spagnola (“Poemas de la tierra” – cura e traduzione di Martha Canfield). Testi suoi sono pubblicati su riviste e antologie, anche tradotti in spagnolo e in francese. Nel giugno 2004 ha partecipato alla XIV edizione del festival internazionale di Medellín (Colombia). Ha ideato e dirige la rivista “Fili d’aquilone”, trimestrale di immagini, idee e Poesia. Nel 2011 ha fondato la casa editrice Fili d’Aquilone.
D- Le parole come acqua fluida e in successione; la scelta dell’espressione linguistica secondo Alessio Brandolini è un percorso obbligatorio e complementare alla sua poesia o esiste un’alternativa?
R- La lingua poetica deve contenere molto: il senso e il sentimento, l’immagine nitida e l’infinito, la musica e il ritmo e, inoltre, deve scorrere bene, come un fiume che va verso il mare. Non è facile trovare l’amalgama giusto per esprimere tutto quello che si vuole dire, anche perché poi i versi possono “dettare” altro, debordare e superare barriere o semplicemente imporsi con la loro forza immaginifica. La poesia non è solo uno modo di scrivere, ma anche – e sopratutto – un particolare modo di vedere/ascoltare ciò che è dentro e all’esterno di noi. Tutto poi sedimenta, lievita e si riversa nella pagina in cerca della forma giusta e quel “sentire” si trasforma in versi, in lingua che sintetizza e allo stesso tempo slarga il perimetro del proprio io.
D- Nelle sue sillogi sorprendono espressioni come “realtà spalmata nello sguardo” “striscia la luce sotto un tappeto di foglie” o riferimenti all’anatomia umana “arterie vene muscoli arti”. Sono accostamenti ad un immaginario poetico quasi surrealista. Secondo lei che fase sta attraversando la poesia oggi nel nostro paese, e se vogliamo, c’è uno stile di riferimento al quale comparare la poesia?
R- Lo stile di riferimento, in poesia, deve essere sempre quello personale, profondo e intimo. Questo non significa non collegarsi alla poesia (presente e passata), non dialogare con essa. Ci sono stati e ci sono “esperimenti” di poesia automatica, o fredda, da laboratorio, ecc. Ecco, io credo che la poesia di sperimentazione, d’avanguardia abbia lasciato poche tracce, non dal punto di vista della storia letteraria, ma come fattore artistico, di qualità poetica. Se nella poesia si esclude la persona, l’io con la propria etica, corpo e sentimenti, non si fa più poesia ma letteratura, e sono due cose diverse.
D- L’affettività legata ad un luogo, i profumi, i suoni improvvisi sentiti non in quel luogo, ma in un altro, aiutano la sua poetica?
R- Aiutare, forse, non è la parola giusta. La nutrono e, inoltre, la delimitano in uno spazio preciso e questo gli permette (alla poesia) di definirsi meglio, di tracciare e sondare percorsi in un habitat che le è congeniale, di non restare nel vago o sospesa nel vuoto. Così Roma (nel mio caso) per Tevere in fiamme, o la campagna dei Castelli romani per le Poesie della terra.
D- Quanto è importante la lezione di Marcel Proust per la poesia?
R- Ogni romanzo “capolavoro” è importante per un attento lettore, è un ritrovarsi in luoghi lontani, un incontro con personaggi che ci diventano amici, un sondare con tutti i sensi l’animo umano, al di là delle barriere geografiche e storiche. Questo vale per Proust, Joyce o Svevo, la Austen o Agota Kristof e tanti altri autori di romanzi. Leggere Proust è per me un calarsi dentro i “dettagli” della vita, dei sentimenti e delle pulsioni umane, una lenta e inesorabile discesa nel tempo, negli inferi del tempo.
D- Poesia e prosa, quali sono le sostanziali differenze per Alessio Brandolini?
Da quel poco che ho detto sopra si evince che la poesia la intendo anche come un dono: avere un “orecchio” particolare per riuscire a sentire tutto quello che si nasconde dietro le parole di un testo scritto in versi. Anche un buon lettore di poesia ha in sé delle qualità peculiari: deve compiere uno sforzo, a un tempo sensitivo e intellettuale, per entrare in piena sintonia con il testo poetico. Un po’ come quando si ascolta musica classica o “difficile”. Occorre pazienza, voglia di rileggere, di capire, di abbandonarsi e lasciarsi coinvolgere dal linguaggio poetico. E non è facile, oggi, per via dei ritmi frenetici in cui viviamo.
Mi sono avvicinato alla narrativa (come scrittore) attraverso i racconti brevi e a febbraio uscirà il libro “Un bosco nel muro” (Edizioni Empirìa). Il racconto breve si avvicina alla poesia per il fatto di esprimere molte cose in poche parole, eppure è un mondo diverso e la storia narrata (sebbene in poche pagine) risponde a regole e ritmi assai diversi da quelli poetici.
D- Un tempo i poeti avevano come riferimento per la pubblicazione dei loro sogni poetici la casa editrice Scheiwiller, come fu per Alda Merini o la Garzanti per Pier Paolo Pasolini. Oggi nel terzo millennio c’è ancora chi pubblica anche per sostenere un poeta valido esordiente?
R- Non è mai stato facile pubblicare poesia in Italia e chi lo afferma non è bene informato. Sono molti gli autori del passato che hanno aspettato parecchio per essere pubblicati e poi riconosciuti, apprezzati. Non si ha più memoria di tanti fatti, per esempio delle enormi difficoltà che ebbe Campana con i suoi “Canti orfici”, o del fatto che Palazzeschi pubblicò il suo primo libro (Cavalli bianchi) a sue spese, con la casa editrice Cesare Blanc, che in realtà era il suo gatto.
La poesia ora è meno letta in Italia, vero, perché? Non è così altrove e allora bisognerebbe riflettere su questo e sarebbe un discorso lungo, ma non è colpa solo degli editori. Però ora c’è il mondo del web e ho scoperto, e come me sicuramente molti altri, bravi poeti (non solo italiani) spulciando riviste o blog. C’è un rischio: la mancanza di selezione porta alla dispersione, all’eccesso.
D- Poesia ed editoria, quali sono i suoi progetti per il futuro?
R- Agli inizi del 2011 ho fondato la casa editrice Fili d’Aquilone e prima ancora (nel 2006) la rivista web Fili d’aquilone (d’immagini, idee e Poesia). Siamo partiti con la collana “i fili” pubblicando poeti contemporanei stranieri (Dickinson, Boccanera, Samoilovich, i poeti del Québec) e andremo avanti. Da poco abbiamo inaugurato la collana per ragazzi “le ali”, con un romanzo di Annarita Verzola.
La poesia, anche in Italia, prima o poi godrà di maggiore attenzione, se non di prestigio. Credo che da questo punto di vista, negli ultimi anni, qualcosa sia già cambiato: ci sono molti giovani che scrivono poesia o la leggono e se ne occupano, con sensibilità e intelligenza.
Per quel che mi riguarda, dopo la pubblicazione de “Il fiume nel mare” (2010) lavoro contemporaneamente a due libri di poesia, molto diversi l’uno dall’altro. Sarà una sorpresa scoprire quale dei due andrà avanti e stimolerà il desiderio (e la necessità) di separarmene, di mandarlo in cerca di un editore, e di lettori.
Michela Zanarella
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