Che studenti erano i nostri professori? Il prof. Brunacci e il prof. Mori aperti al dialogo.
di Leonardo Berbeglia, Nico Loreti e Alessandro Mattesini.
Massimo Brunacci
In che anno ha frequentato il liceo ?
Fra il 1968-1973
Ci sono stati grandi cambiamenti tra la scuola di adesso e quella di allora?
La struttura è sempre la stessa, semmai è peggiorata poiché è vecchia di quarant’anni e non è mai stata curata più di tanto dai responsabili. Il mio è stato un periodo tutto particolare. Quegli anni sono stati i più movimentati della scuola italiana. Le cose che sono cambiate di più sono gli studenti.
A livello d’insegnamento?
Sulle questioni strutturali della scuola, contenuti, metodi, ruoli, sotto quest’aspetto è cambiato poco o niente. Il cambiamento più pesante è che man mano sono aumentate le forme di selezione, sono aumentate le verifiche, tutto è più legato ai voti a causa del contesto sociale che rimanda alla selezione. Scuola come strumento di scalata sociale, specialmente il liceo classico. Cambiamenti nei professori non ci sono stati, il vero cambiamento è negli studenti.
C’erano molte differenze tra le liste dei rappresentanti di oggi e di allora?
Ai miei tempi non c’erano liste, è stata questa la caratteristica fondamentale del movimento degli studenti che hanno partecipato dei cambiamenti radicali, politici, culturali etc, del ruolo degli studenti, della loro rappresentanza e ci sono state discussioni pazzesche sulle assemblee. Tutto illegale, grandi proteste, occupazioni e contestazioni. Era un progetto globale, una questione che non si può nemmeno immaginare, perchè oggi come oggi lo studente ha capito come funzione il sistema e non s’illude di migliorarlo, organizza la carriera scolastica sui suoi progetti, scopi e ambizioni e se c’è una discussione è sulle forme di verifica e sulla disciplina interna ma non è mai di sostanza, non perché è giovane, ma perché ha bisogno di cambiamento anche sostanziale anche se non ci crede e tutto sommato lo capisco, questo è il vero cambiamento. Le liste dovevano essere la manifestazione di ciò e questo si ottenne dopo anni di sciopero e occupazione ed io non ho nemmeno fatto in tempo a vederla attiva perché sono uscito quando ancora non era stata concessa (la rappresentanza d’istituto). Non ho fatto nemmeno in tempo a vedere l’assemblea poiché è entrata in vigore due anni dopo che me ne sono andato. La situazione era diversa ed io non nascondo che ho partecipato “a tutto spiano” a questa fase.
Secondo lei gli studenti erano più politicamente attivi?
Questo sì, è logico. L’attività politica non era semplicemente degli studenti ma era più attiva in tutto il contesto sociale, quindi gli studenti la sentivano per via diretta o indiretta.
Lei come ha reagito a queste sollecitazioni politiche?
Io ho partecipato a tutte le forme di contestazione, proteste e occupazione; anzi, quando ero più grande le ho anche organizzate, ma mai in una posizione di scontro. Per natura non sono portato ad usare la violenza, quindi ho partecipato, ma non ho mai alzato la voce, non ho mai spaccato vetrine, non ho mai dato fuoco ai copertoni e non ho mai minacciato nemici politici. Non ho mai partecipato a tutto questo e non posso dire di essere stato da una parte. Facevo parte del gruppo degli studenti che prendevano l’iniziativa. Ma la questione politica non era la questione principale per me, la questione principale è sempre stata una questione culturale. Non ero d’accordo con l’impostazione dei contenuti dei programmi della scuola, con la logica selettiva, classista, che di fatto tendeva a riproporre valori che chi era giovane sentiva superati, ma anche falsi e pericolosi. Io non ho mai fatto parte di un partito, ho votato sempre una serie di partiti diversi a seconda della situazione storica e politica senza affezionarmi a nessun gruppo politico per definizione. Non ho mai fatto parte dei sindacati.
Quali erano i vostri obiettivi?
Non erano uguali per tutti, c’era uno scontro politico. In linea di massima, democrazia dentro alla scuola, diritto di studio, noi non volevamo continuare ad essere lì sulla base del censo e per le condizioni economiche, ma in base al merito e alle qualità personali. L’altra questione era critica di base al pensiero borghese, cultura borghese, carriera, successo, prestigio, mantenimento di una serie di valori un po’ ipocriti formali di un’educazione che metteva un po’ in crisi i poveri e i malati. Era una questione di potere politico, che non fosse uno schema rappresentativo che si rifacesse tutto alla borghesia. Poi l’estrema sinistra sperava che fosse inizio di una base rivoluzionaria anche violenta, la destra pura da un altro punto di vista mentre io facevo parte dei gruppi cattolici extra-scolastici e non avevamo una logica di una rivoluzione violenta. Ci doveva essere un grande cambiamento di valori.
In concreto che cosa avete ottenuto?
Di visibile e concreto non molto, appunto avete la vostra assemblea, i vostri rappresentanti, partecipate al consiglio d’istituto, ci sono i genitori nei consigli di classe e le ragazze non portano più i grembiuli. Ora l’ambiente all’interno delle classi è molto più informale, professori più amichevoli. I grandi obiettivi di fondo… se mi dici oggi ci sono più possibilità di studio, ti dico NO NON CREDO, se mi dici c’è più democrazia effettiva dentro la scuola ti dico NO NON CREDO, se mi dici programmi e contenuti, i valori che contestavate sono stati sostituiti NO ANZI sono ritornati alla grande. I valori che sono stati discussi mi pare siano adesso il cavallo di battaglia nel sistema scolastico.
Secondo lei gli obiettivi per la quale vi siete battuti e i risultati ottenuti dalla vostra generazione rispecchiano le esigenze della nostra?
Da esigenze diverse potrebbe essere ma da zero esigenze no. Le esigenze che sono percepite dagli studenti faccio fatica a capirle nel senso che la sostanza non è messa in discussione e quindi l’esigenza che ci sia una fontanella d’acqua potabile mi sembra inutile.
E comunque le esigenze per cui gli studenti si battono sono differenti?
No battersi è una parola grossa. Battersi significa fare cose che costano molto anche a livello personale, rischi, scelte, iniziative di tutti i tipi, battersi per me significava partecipare a 50 manifestazioni non autorizzate, avere a casa cinquanta lettere da parte della questura che avvisava la mia famiglia che avevo partecipato, a scuola venivi e dopo che eri stato via quattro o cinque giorni i professori non ne erano entusiasti, e quello che potevi pagare in termini di voti e di rapporti nella classe era pesante. Un ragazzo oggi identificherebbe i suoi obiettivi diversamente anche se secondo me la questione rimane fondamentale. I vostri obiettivi li dovete decidere voi se non avete esigenza di una scuola differente, delle verifiche fatte in un modo differente che non sia di verificare chi è più bravo o meno bravo, ma di portare tutto ad un livello di sapienza e umanità. Io vedrei questi gli obiettivi, l’abolizione totale delle interrogazioni, l’abolizione totale del 50 per cento dei programmi, la riuscita della persona più che dello studente, però evidentemente se fossero davvero sentite ci sarebbero movimenti che non ci sono, o perché non si sentono o perché non ci si crede o perché evidentemente si crede in altri obiettivi.
Io sono deluso del fatto che la scuola sia andata sempre di più in un’esigenza di selezione, come uno strumento di scalata sociale. La cultura, la sapienza, la coscienza, il senso di democrazia e la moralità in queste scuole non ci sono. Eppure i professori non sentono questa esigenza, sarà solo mia?
I punteggi, i voti, i numeri sono diventati la dominante tant’è che oggi l’operazione del punteggio è arrivata a livelli ridicoli, noi facciamo gli scrutini con le calcolatrici e i voti sommati tutti insieme devono formare una media x e se non viene questa media x non scatta il punteggio. Se le cose vanno così mi domando cosa stiamo a fare tre mesi su Aristotele, 500 ore di greco, perché tutte queste cose a prescindere ci insegnano un modo di guardare la realtà fosse anche che alla fine tu non fai nessuna carriera e rivesti un ruolo sociale umile, questo non sarebbe un fallimento, il fallimento sarebbe se, per esempio, studio tre mesi Aristotele per prendere 8, dopo una settimana non mi ricordo più nulla, poi 8 lo voglio prendere a inglese e studio inglese, alla fine a forza di accumulare voti prendo il diploma che tutti vogliono, poi vado all’università e faccio il lavoro che tutti vorrebbero fare, ok?
Ecco, questa è la morte della scuola, della cultura e anche dell’uomo, perché invece che migliorare e crescere diventa sempre più individualista, più egoista e aggressivo tanto che poi dobbiamo assistere al fatto che milioni di uomini che hanno studiato sono in galera o ci dovrebbero andare, la corruzione come metodo normale di comportamento, gente che ha studiato nei migliori licei.
Questa concorrenza c’era anche quando lei frequentava la scuola?
Si certo, ma una tensione culturale diversa ancora si avvertiva; cioè, anche i docenti avevano una storia di ricerca culturale e d’impegno che faceva pensare che il vero scopo del loro insegnamento fosse al di là dei voti che davano. Questo oggi si sente molto di meno, ma non darei la colpa ai professori individualmente, ma all’aria che si respira e i professori si adattano, se le famiglie lo pressano e se tutta la società richiede persone competitive, sostanzialmente sul piano economico. La scuola si è adattata. Il risultato è stato che gli studenti sono molto più efficienti e intelligenti degli studenti della mia generazione, però sono anche figure che dal punto di vista umano possono andare incontro a qualsiasi disastro.
L’intervista è finita, abbiamo cercato di trovare le domande migliori, se ci siamo riusciti non lo so, di sicuro ci abbiamo provato. Se vuole aggiungere qualcosa.
Una cosa la aggiungo. Lo studio se non è un’avventura spirituale, se non è una ricerca di sapienza se non è un riconoscimento della verità diventa un’arma a doppio taglio, se non è così non è neanche un bene che gli esseri umani vadano oltre la cultura base come leggere e scrivere. Se si deve andare avanti senza capire che quello che si fa è una vocazione, una ricerca spirituale e del bene, penso che sarebbe meglio fermarsi alla quinta elementare. Allora dobbiamo deciderci, se siamo qui perché qualcuno è più ambizioso di qualcun altro io non ci sto, perché mi rifiuto di pensare che il liceo classico sia la scaletta privilegiata per i ruoli che contano, resto dell’idea che la cultura classica ha dato l’impronta della civiltà e sia importante per confrontarcisi. Utilizzata per fare carriera possiamo anche dimenticarcela e andare tutti a coltivare qualche pomodoro che è sempre un bel lavoro, molto meglio che mettere una targhetta sulla porta dell’ufficio con scritto “GRAN FIGLIO DI X“.
Dico “attenzione”, creare un mostro acculturato è molto facile.
Brunetto Mori
In che anni ha frequentato il liceo classico?
Fra il 1968 e il 1973.
Nota dei cambiamenti nel metodo d’insegnamento?
Quando ho frequentato la scuola c’erano insegnanti molto più anziani di oggi, infatti sono tutti morti a parte una. Avevano un atteggiamento molto diverso, ed erano dei conservatori illuminati, molto esigenti, ma anche molto corretti. Per esempio, una cosa che ho ripreso da loro è che il lunedì non interrogo per dare la possibilità agli alunni anche di godersi il weekend. Comunque c’era un atteggiamento molto più rigoroso.
E per quanto riguarda gli studenti ci sono molte differenze? Nello specifico, erano più politicamente attivi?
Questo diciamo è un interrogativo retorico. Il mio percorso scolastico si situa dalle superiori all’università fra il ’68 e il ’77, gli anni chiamati impropriamente ’68, che in realtà iniziano nel ’68 e finiscono nel ’77, quindi li ho passati tutti. E’ chiaro ci fossero differenze. Per esempio, noi eravamo trentadue in classe, però la mattina la stragrande maggioranza entrava con un quotidiano, oggi nemmeno gli insegnanti lo portano.
Ci sono state delle manifestazioni. Lei come ha reagito a queste sollecitazioni politiche?
Io ho reagito impegnandomi, cominciando a fare politica a scuola, e facendo parte di un’organizzazione extraparlamentare di sinistra chiamata “Lotta continua”. In generale abbiamo fatto manifestazioni, occupazioni. Diciamo che Arezzo, comunque sia, è un microcosmo rispetto alle grandi città e in piccolo delle cose sono successe anche qui.
E per quali obiettivi manifestavate?
Essenzialmente, partendo dai locali scolastici, che poi erano questi, che sono anche peggiorati, anche perché sono aumentati gli alunni. Partendo da qui, ma il discorso era sociale politico, ad esempio ci battevamo per il diritto all’assemblea. Mi ricordo, in IV ginnasio, io ed altri quattro compagni siamo stati sospesi per aver firmato un manifesto, con obbligo di frequenza nell’aprile del primo anno scolastico, con il rischio di essere bocciati. Erano cose specifiche di un mondo che stava cambiando. Per esempio, le nostre compagne dovevano indossare un grembiule, si diveniva maggiorenni a 21 anni. Allora c’erano problemi, ma non così specifici legati alla scuola come oggi. E’ stata una palestra, e la scelta di fare filosofia, parlo anche a nome della professoressa Cassioli, che era una mia compagna di classe, fu politica ed influenzata dal fatto di essere stati studenti in quel periodo, perché quella dimensione ci aveva preso.
Ci sono stati dei risultati ovviamente, ma furono quelli che desideravate o speravate in qualcosa di migliore?
Sì, anche perché il movimento degli studenti era legato anche a movimenti più generali, e quindi, se penso a com’era, direi che oggi la situazione è migliore, è molto più libera, grazie a quei conflitti, anche forti, che ci sono stati all’epoca.
E secondo lei gli obiettivi ottenuti dalla vostra generazione rispecchiano le esigenze della nostra? Anche perché ciò che avete ottenuto oggi sembra scontato, quasi disprezzato.
Certo, sono passati quarant’anni, le situazioni cambiano, ve ne accorgerete quando farete Hegel, Marx, la storia cambia, gli strumenti, la mentalità. Noi siamo figli di quelli della seconda guerra mondiale, e quella tensione in casa si sentiva, quindi uno dei nostri desideri era di stare insieme. La scuola come punto di aggregazione. Ci passavamo più tempo, pomeriggi interi e serate a scrivere documenti. Mentre ora sono cambiati i termini e gli alunni sembrano molto più soli di quello che era. Non so, probabilmente ci saranno altre forme. Per questo siamo molto diversi, avevamo voglia di stare insieme, anche ad ascoltare la musica e c’era un utilizzo molto più politico della musica in quegli anni. Oggi con le cuffiettine, si è più estraniati. Io non riesco a parlare senza guardare in faccia qualcuno, non ho profili su facebook, mi da fastidio anche l’utilizzo del telefono. Ho bisogno di guardare una persona in faccia.
E secondo lei ci sono delle cose che dovrebbero essere cambiate? Delle cose per cui bisognerebbe batterci?
Per me tante cose. Anche questa crisi politica e sociale dell’Europa e dell’Italia, io penso che dovremmo impegnarci a cambiare anche i rapporti fra le persone. Non saprei quali sono i vostri desideri.
E se fosse al posto nostro?
Se fossi al posto vostro, certo, anche quando sento qualche alunno ascoltare cose che ascoltavo e ascolto io, se un alunno ascolta Springsteen, evidentemente c’è la ricerca di qualcosa che si può accomunare a noi, ma ecco, non saprei, perché non so come certe cose possano o meno darvi fastidio.
E per quanto riguarda il rapporto alunno-studio?
Su questo ho notato una differenza. Pur avendo fatto la scuola in un periodo con professori più rigidi, io ricordo discussioni. Ricordo che la scuola era meno centrata sulla verifica e più sulla ricerca di un dialogo, mi ricordo grandi discussioni e voglia di approfondire. Oggi vedo che c’è troppa ricerca della verifica da parte del ministero, penso sul modello anglosassone. Ma la nostra scuola ha avuto una sola riforma, quella di Gentile, Radice e Duce, che, con tutti i difetti, è stata fatta da tre grandi filosofi e non c’è paragone rispetto alle ultime toppe che sono state messe. La nostra scuola non si può smembrare in tanti piccoli bocconi, quindi o si fa una riforma generale o altrimenti i risultati ottenuti sono questi.
Quindi oggi la scuola ha un po’ perso quel senso.
Sì, secondo me sì. Ed è colpa anche nostra, degli insegnanti, del tipo d’insegnamento che facciamo troppo di routine.
Ad esempio siamo stati criticati perché facciamo troppe domande, e alla fine hanno detto in pratica di stare zitti, di non divagare così da finire questo maledettissimo programma.
Io ti rispondo, citando un grande filosofo, che è Hans-Georg Gadamer, che sostiene che il senso del dialogo non è nella risposta, ma nella domanda e che è molto più difficile fare domande sensate che rispondere, magari a pappagallo.
Le domande sono finite, abbiamo provato a scegliere quelle che ci sembravano migliori, comunque, se ha qualcosa da aggiungere.
Ecco, sì, vi ringrazio per l’interesse su queste cose, è incomiabile, in un mondo in cui si twitta tutto stare a dialogare è segno di un approfondimento; magari l’abbiamo fatta male e se rifacessimo questo lavoro fra un mese diremmo cose diverse, però il fatto di provare a parlare di una cosa complessa senza banalizzare con domande tipo quiz è già una cosa molto importante. E penso che dobbiate dare seguito all’assemblea cercando di stimolare i ragazzi a partecipare attivamente.
Ad esempio, le assemblee come le sembrano?
Mah, per esempio, qualche film bello l’avete mandato, e fate il cineforum, che è un’appendice; anche noi se c’era possibilità lo facevamo, con un proiettore, ed è bene farlo perché il cinema è una cosa importante.
Paradossalmente le assemblee migliori si fecero durante l’occupazione, due anni fa, e mi ricordo che anche lei fece qualcosa.
Sì, partecipai anch’io.
E, ultima domanda, come le sono sembrate le liste dei rappresentanti di quest’anno? O da un paio di anni a questa parte?
Mah, io ho visto che anno scorso hanno fatto bene i rappresentanti, no?
Diciamo che dopo quelli dell’occupazione sembra un po’ calata la qualità, rispetto a quella a cui ci eravamo abituati.
Sì, è che in un momento di tensione viene di certo fuori il peggio, ma viene fuori anche il meglio. Ora, le proposte di quest’anno mi sembrano molto con poca personalità e non è facile averne. Anche trovare dei simboli nel mondo degli adulti oggi non è molto facile.
La mia generazione, che oggi più o meno comanda, sta dando il peggio di sé. Una personalità come Obama non ce l’abbiamo. Serve qualcosa in cui credere. E alla fine il programma politico della mia generazione è riassunto nella canzone “Dio è morto” di Guccini, “ho visto la mia generazione, un programma politico che è solo far carriera…”. Sotto quest’aspetto vi abbiamo lasciato tutto da fare, perché per certi aspetti la situazione è regredita.
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