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Rosa e gelsomino

Rosa e gelsomino

di Serena Cinternesi

Vent’anni prima, nello stesso giorno e in quell’esatto istante, lei si stava rimettendo i collant trasparenti e sottili come una seconda pelle, lui si sistemava la camicia azzurra sgualcita e si metteva l’orologio al polso pronto a tornare a casa da Marta.
Vent’anni dopo, nello stesso giorno e in quell’esatto istante, lei era distesa su un letto dalle lenzuola rugose di un ospedale sbiadito, lui le stringeva la mano tremante e la guardava placido.
La prima volta fu lei a sollevarsi sulle punte dei piedi sporgendosi verso il volto di Giorgio, la seconda fu lui a chinarsi verso le labbra appassite di Aurora, ma in entrambi i casi sorrisero e si salutarono con un bacio.

<<Fatto tardi anche stasera?>> chiede Marta seduta al tavolo di cucina con una tazza di tè fra le mani <<Una riunione>> risponde Giorgio mentre toglie la giacca e allarga il nodo della cravatta strozzata intorno al collo teso. <<Già, una riunione. Queste riunioni hanno sempre lo stesso profumo. Rosa e gelsomino, giusto?>> Marta con la testa reclinata sorride di un sorriso amaro mentre fissa i fiori della tovaglia bianca e blu. Giorgio si ferma a guardare sua moglie aspettando che alzi lo sguardo. Ma attende invano. E allora sbuffa, sbatte la porta dello studio e svanisce inghiottito da un silenzio ronzante. Marta solleva corpo e anima e si trascina a letto mentre i singhiozzi le bruciano la gola.

“Aurora, quella è Aurora”. L’aveva riconosciuta in una piazza affollata a mezzogiorno a dieci passi di distanza. Capelli lunghi, mossi, ramati. Quella cadenza ritmica di movimenti e gesti che aveva solo lei. E aveva allungato il passo. Lui, che era prof di filosofia, se n’era fregato di Zenone e aveva tentato di ridurre a zero lo spazio che li divideva, percorrendolo all’infinito. Aveva alzato la testa per non perderla fra i fiumi di volti sconosciuti, e poi l’aveva chiamata <<Aurora!>> e lei si era fermata di botto, bloccando il fluire incessante di anime e corpi, e si era voltata con l’aria di chi aveva già capito. Aveva alzato la mano a mo’ di saluto come una bambina e aveva attraversato il ponte fatto di anni di silenzio, di vite opposte, lontane e sconosciute <<Ciao, Giorgio>>. Sorriso. Sorriso.

S’incontravano da un po’ di tempo dopo il lavoro. Anche se lui staccava prima, almeno due volte la settimana rimaneva a gironzolare per la città fino alle sei e mezzo, quando lei terminava il turno in ufficio e lo raggiungeva alla terza panchina a sinistra nel viale centrale del parco. Nelle ore di attesa Giorgio si scopriva di nuovo stranamente nervoso, impaziente, le mani sudate, i pensieri inceppati, il piede che batteva frenetico il ritmo del petto sul ciottolato. Come se fosse ogni volta al primo appuntamento della sua vita. Non vedeva l’ora di scorgerla sbucare da dietro l’angolo in fondo alla strada col suo sorriso vivo e il trucco un po’ sbavato, col suo nome dimenticato per anni e ripescato da un cassetto polveroso. Non vedeva l’ora di sentire il suo profumo insinuarsi fra le ciocche dei suoi capelli trasportato da una folata di vento fresco, di sentirle snocciolare parole che raccontavano una vita che non conosceva, ricordi di estati al mare dove lui non compariva nelle foto di famiglia sorridente e abbronzato. Non vedeva l’ora di starle accanto, così, ad ascoltarla respirare nei momenti in cui taceva, rapita da un’immagine che la portava a chilometri di distanza da lui.

Marta sfoglia l’album del matrimonio. Vecchio, ruvido, stanco. Nella prima pagina c’è una foto di Giorgio che le porge la mano per aiutarla a scendere dalla macchina nera e lucida, mentre lei ride sommersa da una nuvola di organza e speranze. Lui ha lo sguardo languido, le labbra piegate in un sorriso sottile, imbarazzato. Era emozionato. Lei se lo ricordava ancora il momento in cui quasi aveva fatto cadere le fedi ed era arrossito, quando durante l’omelia pestava il piede per terra impaziente di scappare con lei via dalla chiesa, via dalla terra, dritti sulla luna a guardare il sorgere del Sole mentre laggiù dormivano. Era emozionato. Ma forse quell’emozione l’aveva assorbita insieme all’inchiostro la prima pagina di un matrimonio lacero.

Marco rientra a casa, toglie la giacca, slaccia i primi bottoni della camicia bianca, sfila la cintura e getta in un angolo i mocassini. Tende l’orecchio. Silenzio, la casa è deserta. Margot, la bambinaia, ha lasciato un biglietto: è al cinema con la bimba, sarà di ritorno per le dieci e trenta. Aurora, sua moglie, non ha lasciato niente: né un biglietto, né un messaggio, né una chiamata. Marco, in piedi, chiude gli occhi, stringe i pugni ed espira profondamente. Afferra la cornetta del telefono e avrebbe voglia di comporre il numero di Aurora e di gridarle “Ma dove cazzo sei eh?! Dove?!”, ma <<Margot? Riporti a casa la bambina. È tardi.>> e riaggancia. Marco si dirige verso la camera da letto per finire di cambiarsi e appendere ogni pensiero ad una gruccia da rinchiudere nell’armadio, pedinato dall’ombra fatua di un’Aurora che non c’è.

<<Dovremmo andare a casa…>> Aurora si ritira dolcemente, dubitante, dall’abbraccio caldo di Giorgio <<Che fretta c’è?>> e lui piano se la riavvicina al petto. La bacia sulla fronte, mentre le accarezza la testa <<Mi sei mancata>> Aurora si discosta e lo guarda <<Anche tu, ma non importa. È sbagliato.>>. Giorgio dondola sulle punte dei piedi, fissa la notte <<Non abbiamo fatto niente di sbagliato.

Raccontarsi l’un l’altro la propria vita non è un reato>>. In effetti, per mesi interi non avevano fatto altro che parlare, parlare del matrimonio di Giorgio, del vestito di Marta, che era bellissima quel giorno, bellissima, di Marco, che lavorava come direttore di un agriturismo poco lontano da casa loro, della piccola Vale, la bambina di tre anni che aveva parlato ancor prima di mettere i denti e che ora era una perfetta copia in miniatura della mamma, del piccolo Ale, che Giorgio e Marta avrebbero voluto con tutte le forze ma che non era mai arrivato a riempire di prime parole le stanze di quell’appartamento di città. E avevano parlato di quando si erano incontrati, quasi per caso, distrattamente, di quando avevano capito che non era quello il loro momento, che si erano voluti amare senza mai farlo davvero. Si erano ricordati dei visi che erano rimasti intrappolati fra le mura di una biblioteca, a memoria di un Giorgio e di un’Aurora che chiacchieravano felici e realizzati della compagnia reciproca, ignari che la vita li avrebbe spinti su sentieri diversi destinati a ricongiungersi all’improvviso, quasi per caso, distrattamente.

Avevano parlato, parlato soltanto, fino a riconoscersi del tutto nell’abisso di chiacchiere, eventi e persone che li componeva. Senza malizia, senza sensualità, con quella dolcezza imbarazzata che si sente colpevole di un amore che esiste anche se solo nel pensiero. E poi, quella sera, abbracciati e immemori, si erano persi l’uno nel corpo dell’altro. Come la cosa più naturale del mondo si erano legati e stretti e baciati e mangiati e dimenticati di tutto ciò che era oltre quell’istante fuori da tempo e spazio. Si erano persi nei vicoli disegnati dalle arterie blu di un corpo ormai sconosciuto, nelle rughe ancora appena accennate di una pelle che ha conservato negli anni lo stesso profumo di rosa e gelsomino della prima volta, in una voglia minuscola che si ha il piacere di ritrovare al solito posto, poco sotto la bocca, un po’ nascosta dalla barba di due giorni. Si erano amati scordandosi per un momento del senso di colpa che li aveva afflitti ad ogni minimo contatto, del pensiero di chi a casa li aspettava svegli, magari seduti a tavola, soli, con una tazza di tè fra le mani, magari sul divano, davanti a un cartone della Disney perché la bimba senza la mamma non prende sonno. Si erano amati consapevoli che era l’ennesimo addio, l’ennesimo saluto, e che stavolta le promesse di un ritorno sarebbero state negate, recluse insieme alle lacrime nell’angolo più remoto di una memoria esasperata. Immobili, stretti in un abbraccio inestricabile, sorridenti di gioia vera se pur smorzata da tutto ciò che sta sulle loro spalle, nelle loro vite, danzano nella felicità pressata fra quattro mura di una camera d’albergo, fuori dalle quali essa può essere solo calunniata, odiata, rinnegata, ma che sopravvive come una goccia di miele fra le loro mani strette e sigillate. <<Ma il logos prof che ruolo ha in tutto ciò?>> sussurra Aurora mentre si rimette i collant trasparenti e sottili come una seconda pelle <<Se n’è andato in farfalle tempo fa>> bisbiglia Giorgio con un sorriso mentre si sistema la camicia azzurra sgualcita e si mette l’orologio al polso. Aurora si solleva sulle punte dei piedi sporgendosi verso il volto di Giorgio <<Ci stiamo salutando, allora>> <<Direi di sì…>> Giorgio le accarezza il volto <<Ci vediamo fra vent’anni>> e sorridendo con un retrogusto amaro si baciano.

Con un profumo che non dovresti avere addosso, con la pelle baciata da empie labbra, con le particelle del tuo corpo mescolate a quelle di un vicinissimo estraneo, rientri a casa e respiri. Giorgio gira la chiave nella toppa mentre Marta, sotto le coperte della loro stantia camera da letto, ascolta a occhi chiusi ogni scatto della serratura. Aurora si muove lentamente, come un ladro, in colpa, con i nervi tesi, con i muscoli e le ossa pronti a scappare via da una vita in bilico sull’abisso. Ed entrambi, varcata la soglia, vorrebbero tornare indietro per rifare tutto e negare tutto, per trattenersi e cacciarsi a vicenda, per evitare l’inevitabile, per tessere da capo una tela filata per anni, incessantemente. Eppure la crepa profonda che sono certi si sia spalancata vorace sotto le loro gambe tremanti, non li inghiottisce. Con ago e filo, giorno dopo giorno, Marta ricuce una veste grigia strappata che è il suo abito da sposa, Marco un aquilone colorato e infreddolito che fa volare in un cielo plumbeo per mano con la piccola Vale, mentre Aurora, seduta poco distante, fissa e sorride di quei sorrisi immobili con le braccia incrociate e una spina conficcata in fondo allo stomaco. Le vite non cambiano se non in fondo in fondo, alla base sulla quale in un tempo lontanissimo erano state fondate ed erette. Ma se socchiudi gli occhi, se ti volti un po’ di lato, se frastornato, rimani stordito dal rumore ridondante di una fiducia che scroscia in migliaia di minuscoli frammenti di anime, allora puoi abituarti a gesti freddi e rei che tentano di redimersi da una colpa che appare lurida ed egoista, a un marito e a una moglie che credevi amasse te e ti accorgi che invece per tutta una vita, per tutta un’esistenza di piccoli momenti, di anniversari, compleanni in famiglia, vacanze al mare, recite scolastiche, ha aspettato con l’anima in tensione qualcuno che non aveva avuto, al posto del quale aveva messo te, per una felicità di plastica, per attimi di gioia di rimpiazzo a tutti quelli che non aveva potuto avere. E allora chini la testa, ingoi tutto il veleno, la rabbia, l’umiliazione, l’odio, forse per amore, forse per paura, e mantieni stabile un matrimonio tremulo come la debole fiamma di una candela sferzata da folate di vento. E così, in un silenzio congelato, in una negazione ostinata, Giorgio e Aurora erano andati avanti, tornando indietro al punto in cui tutto era iniziato. Le loro vite avevano ripreso il loro corso, immobili, in posa, come se niente mai avesse interrotto il fluire delle loro quotidiane giornate. Come non ci fosse stato un amore estraneo come sfondo di un matrimonio che per il proprio bene, negava la sostanza e manteneva l’apparenza.

Vent’anni dopo, Giorgio, con la pelle solcata dagli anni, le membra sfinite dall’esperienza, lo spirito sbranato dal rimorso e dal desiderio, si sedette alla terza panchina a sinistra nel viale centrale del parco, identica a come la sua memoria ne aveva congelato l’immagine. Il freddo rendeva il cielo notturno nitido e profondo, le stelle in rilievo come lucciole in volo d’estate. La aspettava. Ancora, sì, dopo tutto quello che era successo, sì, con una moglie arresa e disposta se non a perdonarlo almeno a tenerlo con sé. Sì. Sempre. Era lo stesso giorno d’infiniti giorni prima, quando si erano arresi a loro stessi. La aspettava. Ma lei non venne. La attese, ma non arrivò a posargli una mano sulla spalla, col suo solito sorriso, col suo trucco sbavato. Giorgio si alzò, fece per andarsene, ferito, poi si voltò di nuovo, diede un’occhiata all’ora affinando lo sguardo incerto. Il suo ufficio non era ancora chiuso, l’orario non era finito. Lei, forse, era lì, a pensarlo. Attraversò tutte le sue incertezze, tutti gli anni, tutte le responsabilità, le colpe, i rimorsi, e si precipitò dove forse lei ancora lo ricordava. “Non lavora più qui” dissero con lo sguardo di traverso, “A quel che si dice è in ospedale” dissero mentre ormai Giorgio col fiatone, ansioso, impaurito, correva su per le scale di mille reparti, cercandola in ogni volto scarno, in ogni vestaglia spiegazzata, in ogni paio d’occhi arresi. E poi la vide, in una stanza in penombra, con accanto ad un mazzo di rose blu.
Vent’anni dopo, nello stesso giorno e in quell’esatto istante, lei era distesa su un letto dalle lenzuola rugose di un ospedale sbiadito, lui le stringeva la mano tremante e la guardava placido.

Aurora aveva il volto stanco, vecchio, dalla pelle morbida e cadente, eppure c’era qualcosa di ancora sua nella devastazione degli anni. Un riflesso degli occhi forse, un gesto cadenzato magari. O lo stesso profumo di rosa e gelsomino, che fluttuava nell’aria imponendosi sull’odore acido del disinfettante. Era attaccata a diverse flebo, e accanto al letto c’era una bombola d’ossigeno, ma lei pareva non curarsene, e in fondo aveva una qualche importanza? <<Sei invecchiato, prof>> Aurora sorride mentre Giorgio gioca con una delle ciocche candide che le cingono la testa <<Il tempo passa, credo…>>. Si scrutano a vicenda, ritrovando negli angoli più reconditi e impercettibili del loro volto tutto quello che erano stati e non erano potuti essere. Tutta la felicità che si erano persi e tutta quella che chissà perché era stata loro concessa. Il primo incontro, i primi sguardi timidi e impertinenti insieme, la prima lunga, infinita chiacchierata per raccontarsi ricordi che erano impressi in una memoria sola e si volevano condividere in due. Forse nella vita funziona così, amerai sempre qualcuno che non ti si concede del tutto, che non ti prende per mano ma ti dà un pezzo di spago e ti chiede di tenerne un lembo per non perdersi fra i vicoli degli anni. Qualcuno che ti dice di vivere, essere, amare senza però scordarti di chi stringe forte l’altro lembo, di chi ti aspetta dall’altra parte di un filo invisibile e teso, a unire e legare con un abbraccio vite parallele e lontane, che inevitabilmente si pensano a ogni stella morente che si spegne in un cielo invernale. Giorgio si china verso le labbra appassite di Aurora <<Ciao, prof>> <<Arrivederci, ancora e per sempre>> sorridendo con la quiete degli anni, si baciano.

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