×

Daniel Samoilovich, molestando i dèmoni

Daniel Samoilovich, molestando i dèmoni

di  Michela Zanarella

DANIEL SAMOILOVICH, nato a Buenos Aires nel 1949, è una figura centrale nella poesia argentina dell’ultimo quarto di secolo, non solo per la rilevanza della sua vasta produzione poetica ma anche per il ruolo svolto dalla rivista “Diario de Poesia”, di cui è cofondatore e che dirige fin dal suo inizio nel 1986.È autore di dieci libri di poesia, fra i quali Las encantadas, El carrito de Eneas, El despertar de Samoilo. Ha tradotto in spagnolo Shakespeare, Emily Dickinson, Katherine Mansfield, Raymond Carver, il Libro terzo delle Odi oraziane, e Il primo libro delle favole di Gadda.

Molestando i dèmoni di Daniel Samoilovich è stato pubblicato in Italia (a cura di Francesco Tarquini) nel 2011 dalla casa editrice Edizioni Fili d’Aquilone.

 D – Molestando i demoni, la sua raccolta poetica, edita da Fili d’Aquilone alla fine del 2011, ha come sottotitolo “I quaderni di Tien Mai”, perché il suo libro è legato alla figura di questo poeta vietnamita, o forse cinese, di cui si conosce poco? È veramente vissuto o è come Omero un rapsòdo dell’estremo oriente?

 

R – All’inizio Tien Mai è un prodotto della mia immaginazione, del mio desiderio di scrivere poesie in cinese. Così ho dovuto creare questo alter ego, che risultò essere un vietnamita che scrive in cinese mandarino, e poi un suo amico traduce al francese. Lingua dal quale, in un secondo momento, lo avrei tradotto io.

Fin qui, l’operazione percettibile, che mi portò a scrivere persino una biografia immaginaria di Tien, pubblicata in una rivista di Gudalajara, in Messico, che realizzò un numero speciale dedicato agli apocrifi. In questa mia breve biografia Tien Mai fa parte d’una famiglia aristocratica anamita, che aveva dato al suo paese vari imperatori. A un certo punto, durante gli anni trenta, Tien si trasferisce in Svizzera e viaggia nel Nord Italia, che ama moltissimo. Più tardi, quando i nazisti invadono la Francia, aderisce alla Resistenza e muore, ancora abbastanza giovane, lottando contro il nazismo.

Bene, con il libro già pubblicato in spagnolo – nello stesso momento in cui si stava realizzando l’edizione italiana tradotta da Francesco Tarquini – ho avuto un dubbio sul dato geografico che avevo inserito nel libro ed iniziai a cercare dettagliate informazioni sul delta di Hue (sopratutto sul fatto se aveva o no un delta).

Fu così che giunsi a sapere cose sorprendenti, che non avevo quando scrissi il libro: l’ultimo imperatore di Anam, esiliato nell’Isola di Riunione all’inizio dell’invasione nazista della Francia  collaborò con l’esercito libero di De Gaulle e morì lottando contro i nazisti.

Cosicché, alla fine, Tien Mai è sì un personaggio inventato, ma con un retroscena reale, come se risultasse difficile inventare qualcosa di nuovo. Forse è vero ciò che scrisse Oscar Wilde: la realtà imita molto meticolosamente l’immaginazione.

 

D – Lei è considerato uno dei massimi esponenti della poesia argentina, ripercorrendo le tappe della sua carriera letteraria, si ricorda quale fu la motivazione che la spinse a scrivere la prima poesia?

 

R – No, sinceramente non lo ricordo. Però ho buoni motivi per pensare che fu una poesia d’amore scritta verso i dodici o tredici anni: un’assoluta sciocchezza. Ma se fossimo coscienti delle nostre debolezze non faremo mai nulla nella vita, non è così?

Ci vuole un poco di ignoranza e un pizzico di prepotenza per iniziare qualsiasi cosa…

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

D – Nella sua formazione poetica quali sono stati i poeti a cui ha fatto riferimento? Dei poeti italiani chi ha maggiormente apprezzato?

 

R – Ho letto tantissimi poeti con passione in diversi momenti della mia vita. Verso i trent’anni la mia lettura fondamentale fu Eugenio Montale. In lui incontrai un ritorno al mondo visibile e dell’esperienza, una via originale tesa alla rappresentazione di questo mondo, senza la sciattezza della lingua colloquiale né la retorica della poesia aulica.

La relazione con l’opera di Montale fu esclusiva, direi quasi ossessiva durante diversi anni della mia vita. Ogni volta che volevo scrivere qualcosa, mi domandavo: come avrebbe scritto questo Montale? Ovviamente era una domanda senza risposta perché ogni poeta scrive in versi il suo proprio mondo, però quella fu una domanda che diede i suoi frutti.  Da Montale ho appreso molto dal punto di vista formale, la sua poesia mi ha condotto verso lo studio della metrica, dell’italiano, di Dante, a riannodare i miei studi del latino.

Nel corso del tempo le mie letture si diversificarono parecchio. Iniziai a leggere e a tradurre dall’inglese; ad approfondire la lirica spagnola dei secoli XIV e XV, ecc.

Ma la figura e l’opera di Eugenio Montale sono per me, ancor oggi, un modello, un orientamento sicuro e l’oggetto di una adorazione senza limiti. Penso sempre a lui come a un uomo che ha costruito una specie di cattedrale (quella di Santiago, diciamo, o quella di Chartres, per citare le mie preferite).

 

D – Ha tradotto dall’italiano Il primo libro delle favole di Gadda. Quali sono i criteri che lei adotta per una traduzione rispettosa del testo dell’autore?

 

R – Per la traduzione di questa opera di Gadda quello che ci sembrò importante (parlo al plurale perché il lavoro, tutt’ora inedito, l’ho realizzato con la scrittrice spagnola Mercedes Cebrián) fu il tono particolare di Gadda, sempre oscillante tra il neologismo e l’arcaismo, tra la costruzione estremamente arzigogolata e la brutalità, tra il dialetto e la grande madre di tutte le lingue romanze, il latino.

In particolar modo abbiamo fatto di tutto affinché non si perdesse quel particolare sapore dell’originale lingua gaddiana. Il livello della costruzione e il ritmo delle frasi doveva mantenere la velocità e il potere evocativo delle sue espressioni eleganti ed erudite però mai pretenziose, sempre caratterizzate da una particolare disperazione; ovvero, far capire al lettore di lingua spagnola che tutto quello che è brutale come ciò che è sottigliezza letteraria lo è sempre per necessità e mai per spacconeria.

A livello lessicale è stato un lavoro d’investigazione durato diversi anni; davanti a certe oscurità abbiamo consultato amici italiani e più di una volta la sincera risposta era: «ma questo non mi risulta in italiano…». Non lo era, in effetti, considerando l’italiano corrente. Alcuni dizionari regionali e sopratutto un dizionario etimologico dell’ottocento che trovammo online ci aiutarono molto, quantomeno per comprendere il significato del singolo vocabolo. Ricreare dopo, il testo in spagnolo, necessitò l’uso di tutta l’ampiezza della nostra lingua, nelle sue varietà regionali e le sue trasformazioni lungo diversi secoli.

 

D – Mi ha colpito molto la sua poesia “la magnolia”, “un albero che è un albero e anche un boschetto/ con una cima sola per tutti i suoi alberi”.

In molte delle sue opere sono descritti luoghi ed è come se si venisse catapultati verso un altrove, un orizzonte che sfuma, non definito. Che cosa rappresenta per lei il cosmo e come gli elementi influiscono sulla sua ispirazione?

 

R –  Cosmo e microcosmo, è noto, si relazionano in forma intima, o così almeno a  noi piace credere. Un’osservazione prolungata, attenta, di una scena minima può, per usare un verbo che lei usa con tanta precisione, “catapultarci” verso un enigma più grande. Più che l’indefinito, è il definito ma irrisolvibile – il  paradossale – quello che in me risveglia la più grande delle curiosità.

 

D – Qual è secondo lei il ruolo della Poesia nel terzo millennio?

 

R – Quello di sempre, giusto? Ovvero: cantare il mondo, scoprire il sentimento e l’insensatezza di ciò che apparentemente è ragionevole, creare delle nuove immagini che ci facciano pensare in un modo nuovo, a noi del tutto sconosciuto.

Potremmo aggiungere che questo ruolo è ora ancor più implorante di prima, essendo questo terzo millennio difficilissimo da pensare, ed essendo oggi così difficile la prosecuzione di un senso. Ma forse dovremmo diffidare di questo concetto perché quasi tutte le epoche hanno sentito la stessa cosa rispetto a loro stesse.

 

 D – Progetti per il futuro.

 

R – Sto scrivendo un lungo poema ambientato nel 1929, in una zona industriale della provincia di Buenos Aires dove furono installate celle frigorifere e mattatoi tra i più grandi del Sudamerica: celle frigorifere ai loro tempi ultramoderne. Tutto imitando lo stile di quello che si faceva a Chicago: da una parte i capi di bestiame vivi e dall’altra le scatolette di carne in rotta verso l’Europa. Intorno a queste due attività si formò un quartiere operaio. Ora restano in piedi le case di lamiera, sebbene disabitate. Così come il più grande di questi stabilimenti col suo porto, anch’esso in disfacimento.

Il mio libro aspira ad essere il poema di quelle rovine e di quel quartiere abbandonato, della vita che lì pulsò più di ottant’anni fa. Non un’epica, certamente, né una litania. Qualcosa di nuovo raggiunto attraverso il monologo drammatico dei vari personaggi di quel periodo, di quel specifico luogo. L’ipotesi è, ovviamente, che ciò che dichiarano quei personaggi affermi qualcosa d’importante e di valido anche nel tempo attuale: attraverso i loro sogni, i loro dubbi.

 

Traduzione dallo spagnolo di Alessio Brandolini

L’intervista è tratta dal n.2 di Periodico Italiano Mag: http://www.periodicodaily.com/2012/11/29/il-nuovo-numero-di-periodico-mag/

Commento all'articolo