Paolo Belli un “ex-ladro” dal cuore grande
di Sofia Riccaboni TW @sofiariccaboni
Paolo Belli arriva ad Arezzo in una domenica di pioggia torrenziale. Viene facile pensare a quando cantava “Sotto questo sole…” e le battute non mancano.
Se ti dico Ladri di Biciclette cosa ti ricorda…
Innanzi tutto la mia band. È stato un periodo meraviglioso. Però mi viene anche da pensare a come non sempre poi tutto è positivo nella vita. Quando sono sceso da quella “bicicletta”tutto si è girato. Prima erano tutti amici, tutti tappeti rossi, grandi macchine. Nel momento in cui ho deciso di fare da solo, perché volevo continuare a fare jazz, swing, un determinato tipo di musica che non era più vicina allo star-system, ma era meno un po’ più di nicchia, se ne sono andanti tutti.
Però ho fatto bene, ho continuato a vivere come volevo vivere e perché poi sono riuscito a fare quello che volevo fare. Anche con i grossi disagi che uno può avere.
Quando ero con i “Ladri di Biciclette” ero al primo posto della classifica ma non riuscivo a gestirlo. Perché essere al primo posto bisogna anche avere le spalle larghe e il pelo sullo stomaco. E io sono uno diretto, che poco si adatta alle mediazioni. E quando mi sono tolto dal gruppo son andato all’ultimo posto. E ho scoperto che non mi piace essere all’ultimo posto.
Una autobiografia 50 anni. Ci racconti il primo episodio della tua vita artistica?
Incredibile vero? Infatti l’ha scritta un’altra. Insieme a Elisa Cassari abbiamo voluto mettere nero su bianco la mia storia, perché può far capire ai ragazzi che vogliono intraprendere il nostro lavoro che non si deve per forza stare a sedere sul divano dell’amico produttore o essere figli di un magnate. La mia storia porta a dire che studiando, avendo passione, cercando di avere intorno persone che ci credono, ce la si può fare.
La prima cosa che mi viene in mente dal punto di vista artistico è quando facevo lo scemo all’asilo. Facevo le imitazioni di Noschese. Io scimmiottavo, male, lui che scimmiottava gli altri. Ero consapevole di non esserne capace ma mi piaceva tanto farlo. Poi un giorno ho avuto la fortuna poi di passare davanti alla finestra di un ragazzo che suonava il pianoforte. Avevo 5 anni e sai che come tutti a quell’età si è influenzati. Ho chiesto a mia madre di portarmi a scuola di musica. Poi tutto lo studio tutta la gavetta che ho fatto mi ha portato a coltivare quel sogno che avevo da bambino. Perché mi ricordo perfettamente che mi piaceva stare sul palco, mi sentivo sereno e ancora oggi è cosi quando salgo sul palco.
Il volontariato. Sei sempre molto attivo, anche con la Nazionale Cantanti…
Credo che se uno è generoso torna indietro tutto. E poi il mio è un modo di essere. Tu dai, ma ricevi. Agli altri forse funziona meglio in altre maniere. Io ho tante soddisfazioni cosi. Si dice che la solidarietà la si fa per gli altri e in realtà la si fa per se stessi ed è vero. Io l’ho fatto per me perché avevo bisogno di avere intorno a me i miei amici, le mie persone, la mia gente. È che se lo faccio io lo vengono a sapere in molti. Ho fatto quello che mi serve per crescere. Mi rendo conto che quando lo faccio lo faccio per me, conosco di più me e anche gli altri. È come andare a scuola. Con la Nazionale Cantanti anche. Lì io sono la palla. E sono felice di esserlo. Rotolando in mezzo a quel campo faccio delle cose molto più grandi di me. Mi piace pensare che qualcuno paga 10 euro per venire a vedere questa palla che rotola e sapere che quei 10 euro servono a sminare una scuola a Sarajevo, mi fa sentire una persona fortunata. Vedere un bimbo al “Gaslini” di Genova che grazie al tuo aiuto invece di morire vive, è un grande privilegio. Ma lo fanno anche tanti altri. Fare la palla no, ci vuole il physique du rôle.
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