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Caso Melania Rei – Condannato un Militare, per ricatti sessuali ad allieve,

Caso Melania Rei – Condannato un Militare, per ricatti sessuali ad allieve,

Condanna definitiva per un maresciallo capo del Reggimento addestramento volontari ‘Piceno’, accusato di minaccia aggravata nei confronti di due soldatesse che avevano rifiutato un approccio sessuale. La prima sezione penale della Cassazione ha confermato la condanna a 7 mesi di reclusione militare (con concessione della sospensione condizionale della pena e della non menzione) che la Corte militare d’appello di Roma aveva pronunciato nei confronti dell’imputato. I fatti risalgono al luglio 2009 e sono avvenuti nella stessa caserma in cui prestava servizio Salvatore Parolisi, finito sotto processo per l’omicidio della moglie Melania Rea avvenuto nell’aprile 2011.
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Il maresciallo condannato dalla Cassazione era finito sotto procedimento per “ingiuria aggravata ad inferiore”, perche’, per “cause estranee al servizio e legate ad approcci sessuali”, aveva offeso “l’onore e la dignita’” di alcune soldatesse in addestramento, “invitandole esplicitamente ad avere rapporti sessuali con lui” e rivolgendo loro espressioni allusive e pesanti, dicendo anche che “avrebbe preferito entrare nelle camerette delle volontarie per trovarle con indosso solo biancheria intima invece delle uniformi”. Per questo reato il maresciallo e’ stato sempre assolto, anche per mancanza della richiesta del Comandante del Corpo necessaria per la procedibilita’ dell’azione penale. Per il reato di “minaccia aggravata” nei confronti delle stesse volontarie, invece, il militare era stato assolto in primo grado, ma condannato in appello (e quindi in Cassazione): aveva proposto a due soldatesse dei rapporti sessuali, e, di fronte al loro rifiuto, le aveva minacciate dicendo che se avessero parlato con qualcuno avrebbero passato “dei guai”. La Suprema Corte ha ritenuto “corretta” la motivazione dei giudici d’appello: “le minacce – si legge nella sentenza depositata oggi dalla prima sezione penale – erano state poste in essere allo scopo di indurre le militari volontarie a non riferire i fatti ai superiori, nonche’ al fine di occultare comportamenti che avevano turbato la normale vita del reparto”.
Il reato militare sussiste, osserva la Cassazione, “se anche l’imputato non era un superiore diretto delle persone offese” perche’ “rivestiva comunque un grado piu’ elevato delle militari volontarie che si trovavano in posizione subalterna, anche in ragione della giovane eta’ e della precaria condizione lavorativa”, con la conseguenza che “il timore per le possibili iniziative dell’imputato aveva compromesso la liberta’ morale delle persone offese”.

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