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Parole del vino obsolete?

Parole del vino obsolete?

“Comunicare il vino” è stato una specie di slogan molto azzeccato, così come “le parole del vino”. Insieme, i due slogan, hanno prodotto un effetto ciclico nel mondo della descrizione organolettica, emozionale e commerciale, del vino.
Tante sono state le parole impiegate per raccontarne l’ossatura e ancor di più le sfumature, oppure quegli attimi indefiniti di una sensazione che vorrebbero segnalare una diversità di concettualizzare la propria superiorità di saper degustare.
Abbiamo ritrovato una serie di appunti e di note scritte a latere di un articolo pubblicato tempo fa su Drink Business, che trattava le parole più abusate del vino e le cui interpretazioni sarebbero sfavorevoli al vino stesso o all’idea commerciale che se ne vuole dare.
Tra le parole “ballerine” una delle meno catturabili nella loro definizione sarebbe “riserva”.
Prima di tutto “riserva” non ha un valore universale, né tanto meno un significato di uguale valore in tutte le nazioni produttrici di vino; per esempio la Francia non applica la specificità riserva nell’accesso legislativo, quando la usano è semplicemente per abbellire.
In Spagna significa tre anni di affinamento, di cui un anno in legno; altre nazioni si limitano a due anni, di cui sei mesi spesi in legno. Per il Brunello e il Barolo la dizione riserva diventa quasi una gabbia di cinque anni; in Austria ha tutt’altro significato, perché verte su un minimo di alcool abbinato a specifiche stilistiche per passare un panel.
La parola riserva naviga nell’anarchia, nel di tutto di più; evidenziata in questo modo diventa inutile, perché non paragonabile, incomprensibile, inconfrontabile, specie per i consumatori worldwide. La definizione deve restare in etichetta e il vino raccontato non perché è “riserva”, ma perché è vino, altrimenti può passare per una parola usata per garantirsi qualche spicciolo in più.
Questo vino è un’icona: quante volte lo avrete letto! Premettiamo che può essere usata, anche a ragion veduta, e poiché la ragione deve vedersi, la cautela è d’obbligo perché ci deve essere una totale razionalità di chiarezza e di identificazione.
Un’icona per i cristiani ha un significato di sacralità, in informatica è una piccola immagine che dà l’avvio a un programma, in semiologia è un segno che è in rapporto di somiglianza con la realtà che lo unisce.
Nel vino un’icona non può quindi che essere qualcosa che rappresenta l’eccellenza del prodotto, quindi per meritare questo termine deve penetrare all’interno dell’ultima definizione: figure, o personaggi, emblematiche di un’epoca, di un genere, di un ambiente.
Quindi non basta ai vini l’essere famoso perché eccellente, ma serve l’impronta che hanno lasciato nella loro nazione, esempio: Romanée-Conti, Sassicaia, Quinta do Noval National, e non perché un anno hanno vinto il premio di qualche rivista.
L’uso di varietale sembra crei alcune problematiche: varietale è un aggettivo non un sostantivo? Così si stanno interrogando. E così è spiegato.
Sauvignon è una varietà, il suo varietale è rappresentato da un qualcosa che varia dall’erbaceo alla frutta esotica.
Il discorso sul Borgognone è più incisivo e lampante, e molti non hanno compreso il vero significato dell’uso di questa definizione. In special modo quando di un vino si dice: sembra un Borgogna! Si trovano eccellenti Chardonnay e Pinot nero nel mondo che sono costretti a digerire questo matrimonio esplicativo, perché è trendy essere accomunati alla parola. In realtà bisognerebbe pensare che ciò che sembra è comunque una sembianza, quindi simile non è uguale, per cui è il vino abbinato a…, piuttosto che quello che vi risiede a perdere la querelle.
Vigne vecchie. Che vuol dire? Cos’è vecchio in viticoltura? C’è una reale garanzia che un vino ottenuto da indefinibili vigne vecchie sia migliore di uno con vigne non vecchie? Quando è vecchia una vigna? Oppure si abbina questo vecchio con l’affair culinario della gallina: gallina vecchia fa buon brodo, e il bollito?
Usare questa parola dà più l’idea di un nostalgico romanticismo, che una riuscita certa di qualità. Volete degli esempi? Eccoli.
Innanzitutto pochi sono nel mondo che possono dire che le loro viti sono vecchie. Barossa Old Vine (Australia) significa minimo 35 anni; poi ci sono quelle di 125 anni, e queste come le consideriamo? Ci sono anche delle vigne di Zinfandel del 1900, a cui va dato un inquadramento nella terza età.
Tutto ciò ha una definizione ballerina, che non può fregiarsi di situazioni comparabili, esce dai canoni di un giudizio qualitativo spendibile e non apporta alcunché alla dimensione di indagine degustativa del consumatore finale.
Comunque le vigne più vecchie al mondo ancora in produzione sono le Zamwetovka, a Maribor in Slovenia, che affermano databili XVII secolo. Se le altre sono vecchie, queste come sono? Canute?
Anche l’uso della dizione vino cento punti, o giù di lì, diventa un’arma a doppio taglio. Spendere il punteggio non garantisce al cliente che quel vino sia per lui gradevole, magari si aspetta un paradiso organolettico, non lo trova e ci resta di cacca. Non è che quel cliente non gradendo quel vino, comparandolo con il grande punteggio, si senta dequalificato come degustatore, entri in crisi e si allontani da quelle indicazioni numeriche? Potrebbe essere un uso a doppio taglio, senza sapere chi sta tenendo il coltello dalla parte del manico.
Passione. Fatto con passione. L’affermazione più sagace è stata: passione per fare, non passione finanziaria. Non è di certo passione per il vino chi ha comprato un’azienda, ha affidato l’incarico a un wine maker di grido perché garantisce un risultato economico e non certo una passione per il vino. La passione è anche sofferenza, ci si appassiona soffrendo e con del sacrificio, se manca, il risultato finale sarà un’illusione coltivata da illusi.
Queste, a detta degli indagatori della comunicazione anglofona, sono le parole con un flusso distorto, come anche terroir e vin boutique, o peggio vin de garage; parole che non hanno motivo di essere più usate; per cui mediamoci sopra… e anche sotto.
AIS Staff Writer

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